Il ‘caos’ nella distribuzione degli aiuti a Gaza non è un fallimento del sistema. Il sistema è progettato per fallire.
- Abdaljawad Omar
- 30 mag
- Tempo di lettura: 8 min
Israele sta usando la cosidetta Gaza Humanitarian Foundation per raggruppare il popolo palestinese in enclavi sempre più ristrette, costringendo le persone a spostarsi per necessità. Stiamo assistendo all’ascesa di un nuovo tipo di umanitarismo in cui le zone degli aiuti hanno anche la funzione di zone di morte.

Non stiamo assistendo a una rottura con le cose come erano prima.
Quello che sta accadendo oggi a Gaza, dove gli aiuti alimentari cadono dal cielo come ordinanze e i "corridoi umanitari" hanno la funzione di zone di morte, non è il crollo dell'umanitarismo, ma il suo logico compimento in condizioni di necropolitica coloniale d’insediamento.
Leggere queste scene, il paracadute che ha ceduto, i sacchi di farina intrisi di sangue, come tragici malfunzionamenti ha un suo fascino. Ma non è ciò sono.
Sono la grammatica di un sistema che ha a lungo suturato la preoccupazione umanitaria alla logistica militare, i soccorsi alla sorveglianza e gli aiuti alla dominazione.
Ma qualcosa è cambiato, non nei contenuti, ma nella forma.
Per decenni, israele ha mantenuto un'alleanza difficile ma strumentale con le strutture dell'umanitarismo. Nel lungo periodo tra gli anni successivi alla Nakba e l'assedio e la distruzione di Gaza, questa alleanza ha agito in maniera doppia: garantire la legittimità internazionale attraverso l'esercizio della moderazione, e coreografare la violenza all'interno del linguaggio della "sicurezza" e dell’ "autodifesa". La Croce Rossa, l'UNRWA e un alcune ONG hanno svolto il ruolo di testimoni e di complici, limitando e, al contempo, legittimando la macchina dell'occupazione.
In questa guerra, l'umanitarismo non viene più semplicemente assorbito e trasformato in un'arma. Viene aggirato, scartato e cannibalizzato.
La Gaza Humanitarian Foundation (GHF), il nuovo modello israeliano per la distribuzione degli aiuti, è un indice brutale di questo cambiamento: gli aiuti non sono più mediati dal diritto internazionale o nell'ottica della neutralità, ma fluiscono passando da contractor statunitensi privati sotto il controllo militare.
Il nuovo piano di aiuti viene utilizzato da Israele come parte integrante della sua guerra demografica a Gaza: dirigendo i flussi di aiuti in zone selezionate, principalmente nel sud, Israele lavora per raggruppare la popolazione in enclavi sempre più ristrette e governabili. Questo concentrazione forzata delle persone palestinesi non è una conseguenza della guerra, ma il suo l'obiettivo strategico.
In altre parole, gli aiuti sono lo strumento per un trasferimento morbido, che mira a spingere le persone palestinesi in regioni facilmente monitorabili, controllabili e che possono essere infine separate da qualsiasi rivendicazione territoriale. Fame e disperazione non sono effetti collaterali bensì intenzionali, che costringono a spostarsi per necessità.
Israele semplicemente non può farlo con l'infrastruttura umanitaria esistente dell'UNRWA e del WFP. Ci ha provato durante 19 mesi di genocidio, senza riuscirci. Per questo motivo, la rimozione delle organizzazioni umanitarie internazionali segna una svolta verso la gestione unilaterale della Striscia, da parte di nuovo apparato di controllo militare-umanitario. Con l’espulsione di questi organismi, Israele apre a un'infrastruttura più obbediente: appaltatori privati, programmi di aiuto militarizzati e persone palestinesi che collaborano formate internamente e in grado di gestire le popolazioni locali senza sfidare il più ampio regime di occupazione e cancellazione.
Queste zone di distribuzione degli aiuti con la parvenza del soccorso umanitario, sono anche spazi di intrappolamento coreografato, dove l'architettura del caos, della disperazione e dell'umiliazione è meticolosamente messa in scena. Le persone aspettano per ore sotto il sole cocente, sotto i droni, sotto le armi, sotto lo sguardo di un esercito occupante che controlla tutto ciò che vi entra, chi vive e chi muore. La folla si accalca, le recinzioni crollano, vengono sparati colpi di arma da fuoco e il popolo palestinese viene ucciso.
Il palestinese è visibile solo nella fame e sull’orlo della rivolta. In questi momenti, la dignità non viene solo occultata, ma sistematicamente spogliata, sostituita dalla messa in scena di quel disordine che giustifica più uccisioni e sempre più controllo. Il sito del soccorso umanitario diventa il luogo dove Israele può attirare tutte le persone affamate nelle zone di morte e usare una pagnotta come pretesto per sparare.
Il nuovo umanitarismo
Questo inaugura un nuovo paradigma in cui l'umanitarismo non è più mediato dal diritto internazionale o dal consenso multilaterale, ma è militarizzato, privatizzato e securitizzato. È il capitalismo dei disastri portato all'estremo, che erode le istituzioni umanitarie liberali a favore di multinazionali neoliberiste militarizzate.
I tempi sono maturi perché Israele si è stancato di agire. Non ha più bisogno dei rituali di moderazione, con il conteggio accuratamente misurato delle vittime, il linguaggio proporzionale della risoluzione dei conflitti e le strutture legali erette dopo la Seconda Guerra Mondiale. Al loro posto, troviamo una nuova modalità del potere che trasgredisce apertamente, sfida il mondo a rispondere e prospera non sulla legittimità, ma sull'impunità.
Ciò che è accaduto a Tal al-Sultan il 27 maggio ha dato al mondo un ulteriore sguardo su questa nuova logica. All'inaugurazione del primo centro di distribuzione di aiuti umanitari della GHF, migliaia di persone palestinesi si sono radunate lì, spinte dall’estrema fame. E mentre le recinzioni crollavano sotto il peso della folla, le forze israeliane hanno risposto con quelli che hanno definito "colpi di avvertimento". Alla fine della giornata, tre palestinesi erano morti, 48 persone erano ferite e altre sette risultavano disperse. Non si è trattato di fallimento della logistica umanitaria; è questa stessa logica a realizzarsi. Il centro di distribuzione degli aiuti è diventato l’elemento con cui Israele può attirare le persone affamate nelle zone di morte e usare una pagnotta come pretesto per sparare.
Questa non è semplicemente una nuova guerra contro Gaza. È una guerra contro la stessa categoria di "umano" applicata alle persone palestinesi, ed è una riorganizzazione che avrà infine un forte impatto sul mondo intero. Laddove un tempo il discorso umanitario era una cornice attraverso cui la violenza si rendeva leggibile, disciplinata dal linguaggio legale e temperata dai comunicati stampa, l'umanitarismo stesso viene liquidato come una condizione limitante.
Questa riconfigurazione comporta anche una guerra contro la memoria. Le organizzazioni internazionali, per quanto nei loro limiti, spesso svolgono la funzione di archivi della fame, degli attacchi, delle espulsioni forzate e delle morti. Con la loro rimozione si mette in atto la cancellazione dei testimoni e il silenzio della documentazione. L'assenza di osservatori istituzionali consente a Israele di procedere con la sua campagna di annientamento senza il peso dell'immagine, del numero o del nome. Questo perché la presenza delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni umanitarie, seppur in parte complice, voleva anche dire che il mondo stava ancora osservando e che gli aiuti sarebbero stati distribuiti in modo da non mettere in atto una pulizia etnica.
La disuguaglianza della fame
Oltre al raggiungimento degli obiettivi demografici, Israele sta utilizzando il GHF anche in quanto parte della sua politica che potrebbe essere efficacemente definita "disuguaglianza della fame": gli aiuti forniti dal GHF sono tristemente insufficienti a soddisfare gli enormi e urgenti bisogni della popolazione assediata di Gaza: le Nazioni Unite stimano che sarebbero necessari almeno 500 camion di aiuti al giorno per sostenere anche soltanto le necessità di base, ma meno di 100 sono autorizzati all'ingresso. La deliberata riduzione degli aiuti al di sotto della soglia minima di sopravvivenza non è solo crudeltà arbitraria; è finalizzata a creare le condizioni del collasso sociale.
È già stato evidenziato che la scarsità artificiale viene usata come merce di scambio al fine di ottenere concessioni politiche dalla resistenza palestinese. Tuttavia, è necessario anche sottolineare che la deprivazione è uno strumento di disintegrazione sociale: distribuire una quantità di cibo appena sufficiente a far infiammare la disperazione ma mai abbastanza per sostenere la dignità, porta il sistema a produrre il collasso morale. Il tessuto sociale si frantuma, e conseguentemente si verifica una lenta erosione della solidarietà, il campo di battaglia finale di ogni lotta collettiva.
Una cosa è la carestia, che almeno significa uguaglianza nella fame. Un'altra è l’introduzione di risorse appena sufficienti a creare una lotta intestina che si traduce nella cannibalizzazione delle relazioni sociali, colpendo più duramente di qualsiasi massacro
La criminalità degli aiuti
Si potrebbe dire che nei corridoi della fame di Gaza siano all'opera due criminalità. La prima è asettica, istituzionale e del tutto razionale, quella che potremmo definire la criminalità logistica perpetrata dal colonizzatore. L’affamare deliberatamente viene ottenuto attraverso il controllo delle frontiere, usando gli aiuti come spettacolo, sigillando le uscite e poi lanciando la salvezza in scatole ben confezionate. Questo non è solo un fallimento etico, ma un successo politico. È la criminalità delle scansioni biometriche, della maschera umanitaria che nasconde lo stivale militare, resa possibile sia dal governo Netanyahu che da gente come Trump e co., quella curiosa sintesi di capitalismo gangster e violenza di stato che compie massacri in nome dell'ordine.
Ma non è tutto. I collaboratori interni organizzati, i micro-signori della guerra che "tassano" gli aiuti e li dirottano prima che raggiungano la popolazione affamata, formano un apparato locale di distribuzione fondato sul furto come politica. Questo è il supplemento interiorizzato all'occupazione: l'esecutore colonizzato reclutato nel mezzo della guerra per favorire un'ulteriore passo verso la disintegrazione sociale.
In questo contesto, il crimine è ovunque: nel massacro stesso, nella struttura stessa degli aiuti che ne crea la necessità. Israele non è l'unico criminale; l'intera configurazione è criminale, incluse le agenzie umanitarie, la burocrazia, il silenzio, il drone in volo e il collaborazionista sul campo.
L'altra "criminalità" entra in azione quando la folla si riversa, sfondando la barriera e cercando di ottenere ciò che è sempre appartenuto loro: pane, olio, riso, il diritto alla vita. Non si tratta di saccheggiare ma di rientrare in possesso di beni di sostentamento rubati. È la pianificazione di chi non ha un piano, la logistica di una comunità che erompe dalle fratture di una disperazione deliberatamente architettata. È il rifiuto di morire in fila sotto i droni, spogliatɜ della dignità.
La gente non è una folla, ma un'inondazione: una forza viva che viola la zona di contenimento della carestia, liberando il cibo dalla sua prigione con l’etichetta. Ciò che Israele definisce caos è, in realtà, chiarezza collettiva.
Questa seconda “criminalità”, il crimine della sopravvivenza, è incomprensibile allo sguardo umanitario e liberale. Rimane illeggibile per le istituzioni condizionate solo a distinguere il bisognoso accondiscendente dal deviante pericoloso. Ma questo atto collettivo di appropriazione non è un grido d'aiuto, bensì una rottura di quella stessa logica che in primo luogo ha reso gli aiuti necessari. Dopo 600 giorni di massacri e distruzione, le recinzioni sono cadute, i sacchi sono passati di mano in mano e il tempo coloniale ha iniziato a balbettare.
Anche questo è accaduto la scorsa settimana: un’ondata composta da tutte le persone palestinesi di Gaza che passa attraverso quello scenario di dominazione rigidamente programmato, sconvolgendone l'illusione di controllo totale di Israele, mentre quest'ultimo esternalizzava la propria sovranità a contractor privati statunitensi. La stessa sceneggiatura è stata fatta a pezzi due volte: la prima, quando la maggior parte delle persone palestinesi a Gaza non si è presentata, rifiutando persino la coreografia stessa, e la seconda, quando la folla ha sfondato la recinzione.
Questo, dunque, è il momento che ci rimane: un momento in cui Israele non si preoccupa più di nascondere le sue azioni dietro foglie di fico umanitarie, ma disprezza apertamente quello stesso linguaggio che un tempo mascherava la sua violenza. E il mondo viene sfidato, a intervenire, certo, ma più precisamente, ad affrontare il fatto che i suoi interventi e i suoi discorsi sono sempre stati parte del problema, sempre vuoti e privi di sostanza.
Si potrebbe chiedere a chi si dice liberale cosa resti di questo linguaggio, non solo a Gaza, ma anche in un prossimo futuro.
E in mezzo a tutto questo, ciò che rimane fondamentale è che, nonostante tutto, il popolo palestinese trova ancora un modo, che sia attraverso una pianificazione deliberata o una rottura spontanea, per inondare l'infrastruttura dell'annientamento.