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Palestina e politica dell'anti-appello: intervista a Mohammed El-Kurd

  • Immagine del redattore: Abdaljawad Omar
    Abdaljawad Omar
  • 10 feb
  • Tempo di lettura: 13 min

Aggiornamento: 28 mar

Abdaljawad Omar intervista Mohammed El-Kurd sul suo nuovo libro, sulla difficoltà di raccontare la resistenza palestinese senza distorcerla e sulle contraddizioni di scrivere per un pubblico che ci si rifiuta di compiacere.



Mohammed El Kurd e la copertina del suo nuovo libro “Perfect Victims”.
Mohammed El Kurd e la copertina del suo nuovo libro “Perfect Victims”.

Nel suo nuovo libro, Perfect Victims, Mohammed El-Kurd rifiuta il copione che da tempo impone alle persone palestinesi il modo in cui devono raccontare la propria oppressione. Il libro è un atto di sfida contro la politica dell'appello, la richiesta che le persone palestinesi si rendano leggibili attraverso la sofferenza, attraverso prove di innocenza, attraverso rappresentazioni di vittimismo che siano gradite alla sensibilità occidentale.


In un mondo che ci chiede di esporre la nostra carne affinché si possa credere nella nostra morte, ma che anche dopo aver riconosciuto che stiamo morendo, trova ancora il modo di incolpare il cadavere, il libro di El-Kurd offre una critica fresca, senza scuse e potente delle modalità di rappresentazione tradizionali e degli anni di politica dell’attrattiva palestinese che sono serviti solo a concedere troppo. Rifiutando questo modo di rendere attraente [la propria condizione e la propria causa], El-Kurd ne costruisce uno diverso, più radicale: un appello che non ricerca il permesso, che non igienizza, un appello che è allo stesso tempo un anti-appello. È un'affermazione della dignità palestinese svincolata dal bisogno di riconoscimento, un'insistenza su una politica che non dipende dalla benevolenza di un pubblico immaginario. Il libro costringe chi legge al confronto, sconvolgendo i quadri che governano la solidarietà ed esponendo i vincoli psichici e ideologici entro i quali operano anche i più benintenzionati sostenitori della Palestina.


Questa conversazione con El-Kurd è, in parte, uno scavo di queste tensioni: le contraddizioni di scrivere per un pubblico che ci si rifiuta di compiacere, la lotta di narrare la resistenza senza diluirla e la sfida di smantellare il discorso stesso all'interno del quale si parla. Questa intervista è stata registrata, trascritta e modificata. Inutile dirvi di comprare la vostra copia del libro di El-Kurd qui.


Abdaljawad Omar: Nella nota dell'autore, descrivi la scrittura ai tempi del genocidio come un compito tortuoso. Sembra che scrivere all'ombra di una violenza così immensa sia, per te, sia un atto di sopravvivenza che di resistenza, un'affermazione, ma anche un processo profondamente conflittuale. Da un lato, è necessario, ma allo stesso tempo, sembra che lotti con la parola scritta e il suo impatto, come se la difesa attraverso la scrittura fosse piena di contraddizioni. Puoi approfondire questa tensione? Credo che molti palestinesi, me compreso, condividano questa lotta.


Mohammed El-Kurd: È una buona domanda. Esito a definire la scrittura come “resistenza”, ma sì, c'è sicuramente la tensione che descrivi. Da un lato, scrivere sembra necessario, soprattutto in inglese, perché all'indomani del 7 ottobre, la retorica che ha circondato la Palestina è stata terribile: ristretta, ostile alla resistenza e piena di concessioni. C'era un rifiuto così schiacciante della resistenza armata palestinese, e anche quando il discorso era nominalmente di sostegno, spesso veniva accompagnato da così tante riserve che il significato di solidarietà veniva diluito. In quell'atmosfera, ci si sente obbligati a scrivere, non necessariamente per impegnarsi in una conversazione, ma per infiltrarsi in uno spazio dominato da questi compromessi.


Allo stesso tempo, si riconoscono i limiti del linguaggio. In assenza di armi, in assenza di fucili, le parole spesso sembrano inadeguate. Inoltre, scrivere di una lotta in corso, quando tutto è ancora in divenire, sembra quasi audace, forse persino arrogante. Come si può analizzare qualcosa mentre le persone vengono ancora uccise e martirizzate? C'è anche la questione della distanza. Sebbene alcune parti del libro siano state scritte in Palestina, la maggior parte è stata scritta a New York. Questa separazione fisica solleva interrogativi sull'autorità, su cosa significhi scrivere da lontano mentre altre persone vivono e muoiono a causa degli eventi che si stanno descrivendo.


Ma alla fine, riconosco il merito della scrittura, soprattutto in un ambiente così ostile alla resistenza palestinese.


Abdaljawad Omar: La penso allo stesso modo. La scrittura può servire sia come una sorta di impegno intellettuale che come una necessità profondamente personale, ma comporta anche una contraddizione interna: il bisogno di scrivere e il disagio simultaneo nel farlo.


Mohammed El-Kurd: Assolutamente. Ecco perché nel libro ho voluto coinvolgermi in ciò che stavo scrivendo. È facile mantenere le distanze e criticare, puntare il dito contro gli altri e sottolineare i loro difetti. Ma volevo che il lettore vedesse che anch'io sono coinvolto in queste contraddizioni.


Ad esempio, c'è un capitolo in cui critico il modo in cui la cittadinanza straniera è enfatizzata eccessivamente nelle narrazioni palestinesi. Cito il caso di Omar As'ad, un palestinese di 80 anni che è stato bendato, ammanettato e lasciato morire dai militari israeliani. Mentre scrivevo di lui, mi sono ritrovato a cercare un articolo che confermasse che era stato anche picchiato, perché nella mia mente la sua sofferenza non era “sufficiente” se non c'era un ulteriore livello di brutalità. Mi sono reso conto che anch'io avevo interiorizzato certi schemi di enfatizzazione della sofferenza palestinese per renderla più “leggibile” a un pubblico occidentale. Includere questa consapevolezza nel libro era importante per me, non come autoflagellazione, ma per essere onesto sui modi in cui anche noi siamo plasmati dai quadri ideologici che critichiamo.


Abdaljawad Omar: Nei capitoli iniziali, inviti il lettore nel tuo salotto, presentando il libro come una conversazione intima. Ma direi che non li porti proprio in salotto, li metti sul balcone o forse li lasci in piedi sulla porta. È un invito, ma cauto. Nel libro c'è ospitalità, ma anche diffidenza, che credo sia radicata nella storia delle interruzioni coloniali alle tradizioni palestinesi di ospitalità. In altre parole, e come sai, nella nostra cultura, accogliere un ospite significa rendere familiare lo straniero. Ma cosa succede quando lo straniero è anche un colono, qualcuno che mira a espropriarvi? Il colonialismo trasforma l'ospitalità in un luogo di tradimento. Penso che il tuo libro rifletta questa ambivalenza. Da un lato, inviti chi legge a entrare, ma dall'altro, chiarisci che la sua presenza è condizionata. Non è un invito facile. Non si fa appello a chi legge in modo convenzionale, bensì, rifiutando l'appello, si crea un diverso tipo di appello. Puoi parlare di questa tensione?


Mohammed El-Kurd: Questa è una lettura davvero interessante. Non avevo consapevolmente collegato la metafora dell'ospitalità nel libro alla più ampia tradizione palestinese di ospitalità, ma ha perfettamente senso.


C'è sicuramente una condizionalità nell'invito. Do il benvenuto a chi legge, ma man mano che si procede nella lettura, diventa chiaro che ci si trova sul filo del rasoio. L'ospitalità non è incondizionata. Forse questo riflette un modello storico più ampio: il modo in cui i popoli indigeni di tutto il mondo hanno esteso la generosità ai coloni, solo per essere ripagati con il tradimento. Lo abbiamo visto in Palestina, dove coloni come Yosef Weitz sono stati accolti nelle nostre case prima di orchestrare il nostro esproprio.


Per me, scrivere questo libro è stato un atto di ribellione contro tutto ciò che mi è stato insegnato sul parlare all'Occidente. Crescendo a Sheikh Jarrah, dove la mia casa è stata presa dai coloni, mi sono esibito costantemente per diplomatici, giornalisti e rappresentanti di ONG. Ho imparato un copione, non perché qualcuno me lo abbia insegnato esplicitamente, ma osservando mia nonna, mio padre, le mie zie e altri eseguirlo. Era pieno di qualificatori, dichiarazioni di non responsabilità e rassicurazioni, pensato per rendere i palestinesi appetibili al pubblico occidentale. Questo libro è stato il mio tentativo di abbandonare completamente quella recita.


Naturalmente, ne sono rimasti dei residui, forse è inevitabile. Ma il mio obiettivo era presentare un'affermazione intransigente e dignitosa dell'esistenza e della lotta palestinese. Respingo l'idea che dobbiamo apparire patetici o miserabili per suscitare compassione. Il potere è più avvincente dell'impotenza. La dignità è più avvincente della vittimizzazione. Il libro è in definitiva persuasivo, ma attraverso una strategia anti-persuasiva. Rifiuta di supplicare e, così facendo, chiede il riconoscimento alle nostre condizioni.


Abdaljawad Omar: Uno degli elementi sorprendenti del tuo libro è il fatto che si concentra su figure palestinesi che di solito vengono cancellate o denigrate nel discorso occidentale: combattenti, uomini, quelli considerati “ineluttabili”. Il tuo rifiuto di usare pronomi neutri quando parli dei palestinesi, ad esempio, sembra un deliberato rifiuto delle narrazioni asettiche che enfatizzano solo donne e bambini. Perché era importante per te mettere al centro queste figure?


Mohammed El-Kurd: Perché è necessario. Per anni, la gente ha criticato la retorica che pone al centro “donne e bambini” nelle discussioni sulla sofferenza palestinese, ma a queste critiche seguono spesso giustificazioni: “Anche gli uomini palestinesi, perché sono padri gentili e ingegneri”. Questo non c'entra proprio nulla. Il problema non è solo la cancellazione degli uomini, è la cancellazione dei combattenti, di coloro che sono considerati spaventosi, di coloro che non si conformano all'immagine della vittima perfetta.


L'argomentazione del libro, secondo cui rifiutiamo la politica dell'umanizzazione e dell'appello, è facile da condividere in teoria. Ma la vera prova arriva quando la applichiamo a figure con cui il pubblico occidentale ha difficoltà a entrare in empatia. Concentrandosi su di loro, sfido chi legge a confrontarsi con i propri pregiudizi. Credono veramente nella liberazione palestinese, o solo in una versione che si conforma alla loro sensibilità?


Anche l'uso del pronome “lui” al posto di pronomi neutri in tutto il libro è stata una scelta deliberata. È stato un rifiuto della richiesta che si parli dei palestinesi solo in modi che li rendano digeribili per il pubblico occidentale.


Abdaljawad Omar: Uno degli argomenti centrali del libro è racchiuso nella frase “Anche se”. Perché hai scelto di iniziare con quella frase? Quale messaggio trasmette?


Mohammed El-Kurd: L'argomentazione del libro è piuttosto semplice, in realtà. Non è un'argomentazione originale: prendo in prestito dalle tradizioni radicali nere, dalle argomentazioni femministe sulla violenza sessuale. L'idea che dovremmo rifiutare l'umanizzazione come precondizione per la giustizia è già stata espressa in precedenza. La sfida consisteva nell'illustrarla in modo tangibile.

Quindi comincio con “Anche se”. Anche se ci fossero armi nascoste sotto l'ospedale al-Shifa, non dovrebbe essere bombardato. Anche se i combattenti palestinesi si nascondessero tra la popolazione civile, hanno comunque il diritto di resistere. Anche se i palestinesi nutrono risentimento verso gli ebrei, non dovrebbero comunque essere sotto occupazione. Anche se... anche se... anche se... Non c'è nulla che i palestinesi possano fare per giustificare il colonialismo sionista. L'obiettivo è cambiare la prospettiva, chiarire che il problema è il sionismo, non il comportamento palestinese.


L'argomentazione del “anche se” riguarda il rifiuto di giocare in difesa. Riguarda il rifiuto di rispondere ai test morali sionisti, il rifiuto di difendere la nostra causa in un modo conforme alle aspettative coloniali. È un rifiuto della performance a cui i palestinesi sono costretti, la costante richiesta di dimostrare di essere degni di essere liberati.


Abdaljawad Omar: Tracci anche un contrasto tra figure come Shireen Abu Akleh e Ghroub Warasneh, tra coloro che suscitano l'indignazione globale quando vengono assassinati e coloro la cui morte fa a malapena notizia. Credi che esista una gerarchia del lutto?


Mohammed El-Kurd: Assolutamente sì, c'è una gerarchia nel lutto. In teoria possiamo dire che tutti i martiri palestinesi sono uguali, che non facciamo distinzioni tra loro. Ma in pratica il mondo non funziona così.


Shireen Abu Akleh era una cittadina americana, una giornalista. Per questo motivo ha ricevuto un'attenzione eccezionale. Il suo assassinio ha suscitato indignazione in tutto il mondo, indagini, dichiarazioni diplomatiche e persino un limitato riconoscimento da parte del governo degli Stati Uniti. Ma confrontiamo questo con la storia di qualcuno come Ghroub Warasenh, un giornalista palestinese di Hebron ucciso in circostanze simili. La sua storia è stata sepolta.

E non si tratta solo di pregiudizi dei media, ma di condizioni materiali. Riguarda il modo in cui opera il potere. Il mio quartiere a Sheikh Jarrah è diventato famoso a livello internazionale non perché abbiamo condotto la migliore campagna mediatica, ma perché si trova a Gerusalemme Est, circondato da ambasciate e organizzazioni internazionali. La geografia stessa ha reso impossibile ignorarlo.

Quindi non si tratta solo di due pesi e due misure. Si tratta dei meccanismi più ampi che determinano la visibilità di chi soffre, la tragicità di una morte e la legittimità della resistenza. 


Abdaljawad Omar: Uno dei sottotesti del libro è una critica alle élite palestinesi. Mi sembra che tu l'abbia un po' attenuata, ma c'è. Citi figure della classe intellettuale e politica, e l'epilogo sembra rivolto tanto ai palestinesi quanto a un pubblico esterno. Qual è il tuo problema con l'élite palestinese?


Mohammed El-Kurd: Dio li benedica. Ma spesso non si rendono conto che fanno più male che bene. Sono loro a stabilire i termini dell'impegno, a definire i limiti di ciò che è “accettabile” dire nel discorso pubblico e, così facendo, riducono la portata di ciò che è possibile per la liberazione palestinese o, più precisamente, del suo discorso.


Molti dei cosiddetti rappresentanti della Palestina nei media internazionali e nel mondo accademico provengono da ambienti privilegiati. Hanno le risorse e le conoscenze che permettono loro di occupare quelle posizioni. E non sto dicendo che sia malizioso, ma il loro background di classe spesso li rende ciechi di fronte alle realtà sul campo.


Più in generale, le élite nelle società colonizzate finiscono spesso per fungere da classe dirigente del dominio coloniale. In Palestina, lo vediamo più chiaramente con l'Autorità Palestinese, ma si estende oltre. Quando un palestinese povero collabora con l'occupazione, viene giustamente ostracizzato. Ma quando le élite collaborano in modi più sottili, accettando la logica dell'occupazione, controllando il discorso, scendendo a compromessi per la propria carriera, non sono sottoposte agli stessi standard.


C'è anche il fatto che la sofferenza palestinese crea opportunità per certe persone. Un accademico, un giornalista o un lavoratore di una ONG palestinese può dire esattamente la stessa cosa che dicono i sostenitori della sinistra occidentale sulla Palestina ed essere celebrato semplicemente perché è palestinese. Questo tipo di logica identitaria permette alle élite di sfruttare la lotta a proprio vantaggio.


Abdaljawad Omar: Uno degli elementi stilistici che ho trovato sorprendenti nel libro è il modo in cui si passa da un tono all'altro: a volte poetico, a volte analitico, a volte intimo, a volte sarcastico. Ci sono momenti di tristezza, momenti di indignazione e momenti di umorismo. Il libro si muove fluidamente tra lirica e critica, rendendolo sia un testo profondamente stratificato che accessibile. È un equilibrio difficile da raggiungere: profondità e semplicità allo stesso tempo. Passa anche dai pronomi personali a quelli collettivi, da “io” a “noi” e “loro”, quando si riferisce ai palestinesi. Perché hai scelto di scrivere in questo modo? Sono state scelte intenzionali fin dall'inizio o sono emerse naturalmente mentre scrivevi?


Mohammed El-Kurd: All'inizio i cambi di tono non erano del tutto intenzionali. Ho iniziato a scrivere i primi due capitoli in modo molto poetico e lirico, in parte perché volevo che il libro fosse un'opera letteraria, qualcosa di ben scritto e piacevole, e in parte perché, egoisticamente, mi interessa che la lingua sia bella, musicale e precisa. Ma man mano che procedevo, ho notato che la mia scrittura si muoveva tra registri diversi in modo abbastanza naturale, e alla fine mi sono lasciato trasportare.


Alcuni lettori preferiscono un'analisi diretta, altri si identificano maggiormente con la narrazione personale, altri ancora sono attratti dalla prosa lirica. Non volevo che il libro si limitasse a un unico modo di esprimersi. A livello strutturale, ho iniziato con una base più teorica e, man mano che il libro si sviluppa, l'argomento assume forme più tangibili e concrete. Questa transizione è stata voluta: volevo passare dall'astrazione alla realtà, dalle idee all'esperienza vissuta.


Per quanto riguarda i passaggi tra “io”, “noi” e “loro”, è stato un riflesso della frammentazione palestinese. Può essere difficile parlare in termini collettivi quando l'esperienza palestinese è così divisa, tra Gaza, Cisgiordania, Gerusalemme, Haifa, la diaspora. Le nostre realtà sono diverse, le nostre lotte plasmate da condizioni diverse. A volte, "noi" sembra accurato; altre volte, devo fare un passo indietro e dire “loro” perché non condivido un'esperienza particolare.


Devo anche ammettere che, in alcuni casi, l'uso del “loro” è stato una decisione legale. Ci sono stati momenti in cui ho scritto in prima persona, dove ho detto, ad esempio, “ho preso il fucile”, ma mi è stato consigliato di cambiarlo per motivi legali, in particolare per quanto riguarda le leggi statunitensi e britanniche sul sostegno materiale al terrorismo. Ho riflettuto se seguire quel consiglio, ma alla fine ho mantenuto alcuni di quei cambiamenti perché mi piaceva il ritmo che creavano.


Abdaljawad Omar: Interessante. Nello stile del libro si nota anche un deliberato rifiuto delle convenzioni accademiche. Il libro è profondamente analitico, ma non segue le rigide strutture della scrittura accademica. A volte ha una qualità quasi parlata, come se si stesse conversando direttamente con il lettore. Hai evitato consapevolmente un approccio accademico?


Mohammed El-Kurd: Assolutamente. Non sono mai stato un accademico, ho scritto forse una decina di saggi accademici in vita mia e non ho la formazione per scrivere in quello stile. Ma soprattutto non volevo. Il libro doveva essere leggibile, doveva avere ritmo, doveva rompere con le strutture stereotipate che dominano la scrittura sulla Palestina.


Ecco perché ho optato per uno stile che mescola registri diversi: passaggi lirici, critiche polemiche, riflessioni personali, analisi politiche. Mentre scrivevo, avevo in mente il Discorso sul colonialismo di Aimé Césaire. Anche se ho alcune divergenze ideologiche con lui, ammiro il modo in cui passa dalla poesia alla critica politica tagliente, a volte addirittura chiamando direttamente le persone per nome prima di tornare a passaggi lirici. Quel tipo di fluidità mi ha colpito.

Alla fine, ho voluto scrivere il libro nell'unico modo che conosco: fondendo ciò che amo della poesia, ciò che trovo più avvincente nella scrittura politica e ciò che ho imparato dalle mie esperienze con il pubblico in contesti diversi.


Abdaljawad Omar: Il libro non parla solo della Palestina, ma di ciò che la Palestina dice del mondo. La lotta non riguarda solo la fine del colonialismo sionista, ma anche la struttura dell'ordine globale. Cosa significa essere solidali con la Palestina, non solo come lotta di liberazione nazionale, ma come parte di una questione più ampia sull'ordine in cui viviamo tutti?


Mohammed El-Kurd: L'hai detto perfettamente. Le persone in Occidente spesso trattano la Palestina come qualcosa di distante, come se fosse una sfortunata tragedia che si svolge nella loro visione periferica. Ma la Palestina non è un'anomalia, è un riflesso di come funziona il mondo.


Le armi usate contro di noi a Gaza vengono esportate ai dipartimenti di polizia negli Stati Uniti. La tecnologia di sorveglianza testata su di noi viene venduta ai regimi autoritari di tutto il mondo. La logica della privazione razziale, della cancellazione, del colonialismo di insediamento non si ferma alla Palestina.


La questione della Palestina non è solo una questione di giustizia per un popolo. Riguarda il futuro del mondo. In che tipo di mondo vogliamo vivere? Se il genocidio a Gaza è un indicatore, allora ci stiamo dirigendo verso un mondo di sorveglianza totale, guerra guidata dall'intelligenza artificiale e sfollamento di massa. La lotta contro il sionismo è una lotta contro l'ordine mondiale che gli permette di esistere.


Abdaljawad Omar: Nel libro, lei dedica il suo lavoro a Omar, che è in carcere. Lo cita anche nel testo. In questo momento, alcuni prigionieri vengono rilasciati e, naturalmente, la speranza è che Omar sia presto tra loro. Cosa significa per te questa dedica?


Mohammed El-Kurd: Volevo dedicare il libro a Omar come piccolo gesto di gratitudine per tutto ciò che mi ha insegnato, per il modo in cui ha messo in discussione il mio pensiero nel corso degli anni. Ma oltre a questo, era anche necessario per me ricordare a me stesso il motivo per cui stavo scrivendo.

Ci sono stati momenti in cui mi sono chiesto a cosa servisse scrivere, quando mi sono sentito paralizzato dalla pura e semplice grandezza di ciò che stava accadendo a Gaza e dalla consapevolezza che il linguaggio, in fin dei conti, non può fermare le bombe. Ma ricordare Omar, ricordare i prigionieri palestinesi, che non sono solo prigionieri politici ma anche simboli della nostra lotta collettiva, mi ha dato chiarezza. Il libro doveva sottolineare quanto tutto questo fosse profondamente personale.


La distanza dalla Palestina, dalla lotta immediata, può creare un senso di distacco, e volevo resistere a questo. Includere Omar nel libro è stato un modo per radicarmi in ciò che conta davvero. Non so se lo leggerà quando sarà rilasciato, ma spero che quando lo farà, gli porti anche il più piccolo momento di gioia. Questa è davvero la più grande ambizione che ho per questa dedica e per questo libro.

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