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L'implacabile saccheggio di terre da parte di Israele: come resistono le comunità palestinesi

  • Immagine del redattore: Yara Hawari
    Yara Hawari
  • 9 apr 2018
  • Tempo di lettura: 13 min

Aggiornamento: 30 mar



Una tenda con una bandiera di palestinese
Campo di protesta su una collina in una zona a est della Cisgiordania conosciuta come E1, denominato villaggio di Bab Al-Shams (Porta del Sole).

Panoramica

Sono passati 42 anni da quando la polizia israeliana ha sparato e ucciso sei cittadini palestinesi di Israele che protestavano contro l'esproprio di migliaia di dunum di terra palestinese da parte del governo. Le proteste furono il risultato di un'azione collettiva di massa in tutta la parte della Palestina mandataria che divenne Israele nel 1948. Le comunità palestinesi si opposero non solo al sequestro delle terre da parte di Israele, ma anche alle più ampie politiche israeliane di eliminazione della vera e propria presenza della popolazione palestinese.


Questo giorno, il 30 marzo 1976, è conosciuto da allora come Yom el-Ard (Giorno della Terra) ed è un evento importante calendario politico palestinese e nella narrazione collettiva. Il fatto che nel 2018 ricorrano anche i 70 anni dalla Nakba, ossia dalla perdita della patria palestinese e dalla creazione dello Stato di Israele, accresce il significato della Giornata della Terra di quest'anno. Anche la Grande Marcia del Ritorno, organizzata a Gaza il mese scorso, era volta a commemorare questa data e a collegarla al diritto al ritorno delle persone palestinesi rifugiate. Il fatto che quest'anno sia stato ucciso il numero triplo di persone che erano state uccise durante l'originaria Giornata della Terra evidenzia come la resistenza palestinese sia considerata una minaccia esattamente come lo era più di quarant'anni fa.


Nel corso di questa storia, le comunità palestinesi hanno contestato il furto delle loro terre da parte di Israele; furto che, nonostante sia una flagrante violazione del diritto internazionale, continua senza sosta e anzi va intensificandosi. Il sostegno del presidente americano Donald Trump e della sua amministrazione all'annessione di ulteriori territori e alla costruzione di nuovi insediamenti, confermato in particolare dal recente riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, non ha che rafforzato la resistenza del popolo palestinese.


Il presente rapporto esamina come il dominio spaziale sia parte integrante del colonialismo di insediamento, analizzando l'appropriazione storica e odierna della terra da parte di Israele, così come i metodi di resistenza palestinese a queste pratiche. Il rapporto conclude con alcune raccomandazioni su come le comunità palestinesi possano collaborare al di là dei confini che le dividono, tra di loro e con terze parti, per resistere al saccheggio della loro terra e per sostenere la lotta per l’autodeterminazione.

I metodi di acquisizione delle terre da parte di Israele

Il risultato principale dei progetti coloniali di insediamento è una riorganizzazione degli spazi fisici e delle persone indigene. Tale riorganizzazione non è né pacifica né passiva, ma costituisce una ristrutturazione violenta che mira a far spazio a una nuova società con una nuova organizzazione sociale e spaziale. Il progetto coloniale sionista che ha stabilito lo Stato di Israele al posto della Palestina nel 1948 non è diverso. Le forze sioniste espulsero 750.000 palestinesi per far spazio agli insediamenti coloniali. [1]


Le centocinquantamila persone palestinesi che rimasero sul territorio crearono un dilemma demografico per lo Stato israeliano. Queste persone palestinesi dovevano essere incorporate come cittadini, ma rimanere escluse [dalla nascente nazione] in quanto non ebree. Nel 1967, la colonizzazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza vide l'assorbimento di altre comunità palestinesi, ma piuttosto che annettere i territori e concedere loro la cittadinanza, Israele instaurò un controllo militare.


Nei primi anni dopo il 1948, lo Stato israeliano utilizzò diversi meccanismi per appropriarsi della terra, comprese misure legislative. La più importante di queste fu la Legge sulla proprietà di assenti del 1950, seguita dalla Legge sull'acquisizione delle terre del 1953. Queste leggi consentivano allo Stato di appropriarsi di terreni e titoli di proprietà di persone rifugiate in quanto assenti dal Paese dopo il 29 novembre 1947. La legislazione fu applicata anche alle persone che si trovavano sfollate all'interno dei confini del nuovo Stato: invece di riconoscere il loro stato di persone sfollate, Israele le categorizzò come “assenti presenti”. Le principali giustificazioni fornite da Israele, allora come oggi, per il sequestro della terra sono l'acquisizione della stessa per uso pubblico e la conservazione del carattere ebraico dello Stato.


Quest’ultima fu la giustificazione utilizzata all'inizio del marzo 1976, quando il governo israeliano annunciò l'intenzione di confiscare 20.000 dunum di terra nell'ambito del Programma di sviluppo della Galilea per la costruzione di insediamenti ebraici e campi di addestramento militare. Lo sciopero di massa e le proteste palestinesi del 30 marzo si svolsero principalmente in sei villaggi della Galilea che erano stati posti sotto coprifuoco, Sakhnin, Arraba, Deir Hanna, Tur'an, Tamra e Kabul, ma si verificarono anche nel Naqab (Negev) e Wadi Ara. [2] La polizia israeliana rispose alle manifestazioni con gravi violenze, sparando a morte a sei manifestanti e ferendone altre centinaia.


La Giornata della Terra è diventata una data in cui le comunità palestinesi della Palestina mandataria e della diaspora organizzano attività basate sulla terra e ribadiscono il loro rapporto esistenziale con la terra. La data sottolinea anche il concetto di sumud (fermezza) come parte importante della resistenza alla colonizzazione israeliana.


Con l'occupazione della Cisgiordania nel 1967, meccanismi "legali" e ordini militari hanno continuato a facilitare la colonizzazione della terra palestinese. Tra questi, l'espropriazione di terre in nome della sicurezza, con cui Israele di fatto sovverte la Convenzione di Ginevra, che consente agli Stati occupanti di confiscare temporaneamente le terre per motivi di sicurezza. Invocando il principio della sicurezza, Israele si è impossessato di terre per ospitare almeno 42 insediamenti [in Cisgiordania] forniti di strade di circonvallazione che li collegano agli insediamenti al di là della Linea Verde [in territorio israeliano]. Un meccanismo altrettanto subdolo è l'uso di un'ordinanza ottomana e una legge del Mandato britannico che consente allo Stato di confiscare la terra per uno "scopo pubblico", nonostante il fatto che le aree confiscate siano state abitualmente utilizzate dalle comunità palestinesi per secoli a scopo di pascolo.


L'attuazione degli accordi di Oslo all'inizio degli anni '90, che hanno diviso la Cisgiordania in aree A, B e C, ha favorito l'espropriazione delle terre palestinesi. L'Area C, che costituisce il 61% della Cisgiordania, è sotto il pieno controllo militare israeliano, compreso il controllo della sicurezza e degli affari civili. La politica israeliana nell'Area C è particolarmente aggressiva, in quanto soddisfa le esigenze di 325.000 coloni israeliani e, contemporaneamente, interferisce e limita le comunità palestinesi.


Nella Valle del Giordano, che rientra nell'Area C, le comunità sono particolarmente vulnerabili allo sfollamento e al furto delle loro terre ancestrali. La valle è un'area strategicamente importante per Israele, soprattutto perché funge da zona cuscinetto con la Giordania e le alture occupate del Golan siriano, ma anche per la sua ricchezza agricola grazie alle abbondanti riserve d'acqua e ai terreni fertili.


La costruzione del Muro di separazione nel 2002 ha inoltre permesso a Israele di acquisire altra terra in Cisgiordania. Costruito per separare la Cisgiordania da Israele con il pretesto della "sicurezza" israeliana, il muro ha posto le basi per l'annessione di molti insediamenti. Collocando il tracciato all'interno della Cisgiordania e non lungo la Linea Verde, Israele si è appropriato de facto di altre terre. Il muro ha separato la popolazione palestinese e tagliato fuori molte comunità agricole dalle loro terre, rompendo la contiguità geografica della Cisgiordania.

L'accelerazione del furto della terra

Oggi, l'espropriazione delle terre palestinesi sta accelerando ad una velocità sorprendente. Le recenti manovre politiche eseguite nei confronti di Gerusalemme hanno messo in evidenza questa crisi e dato prova di come il governo israeliano capitalizzi sullo sfacciato disprezzo dell'amministrazione statunitense per il diritto internazionale e il consenso riguardo allo stato politico di Gerusalemme. La decisione statunitense di trasferire l'ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme rappresenta un riconoscimento de facto e de jure della città come capitale di Israele. Questa mossa ha incoraggiato Israele a consolidare il suo completo controllo sulla città.

Il progetto di legge sulla Grande Gerusalemme (ancora in discussione) ha rivelato l'intenzione di espandere i confini municipali di Gerusalemme per includere quattro grandi insediamenti illegali e molti altri più piccoli. I principali insediamenti coinvolti in questo progetto legislativo, Ma'ale Adumim, Givat Ze'ev, Betar Illit ed Efrat, fanno parte di un blocco che si estende da Gerusalemme a Hebron. Allo stesso tempo, il disegno di legge escluderebbe dalla giurisdizione della città alcuni quartieri palestinesi, tra cui quello di Kufr Aqab. Questa manipolazione dei confini cerca di guadagnare più terra e allo stesso tempo di comprimere le comunità palestinesi nel minor spazio possibile. Oltre alla conquista fisica dello spazio, queste manovre cercano di controllare la narrazione politica su Gerusalemme, in modo che l'intera città diventi indiscutibilmente parte di Israele nel discorso internazionale mainstream.


Nel frattempo, nel Naqab, il governo israeliano sta attuando il Piano Prawer, elaborato nel 2011, che prevede la distruzione di 35 villaggi beduini palestinesi e l'appropriazione delle terre per costruire nuovi insediamenti ebraici israeliani nell'ambito del Programma di sviluppo del Negev. Il Programma Negev è un'idea del Ministero per lo Sviluppo del Negev e della Galilea, un successore del già citato Programma per lo Sviluppo della Galilea, la cui confisca delle terre ha portato alle proteste del Land Day nel 1976. Il ministero è stato fondato nel 2005 per portare "crescita e prosperità... poiché è chiaro che il futuro di Israele risiede nello sviluppo di queste regioni".


Il Naqab e la Galilea sono aree particolarmente preoccupanti per il governo israeliano a causa della loro relativamente alta concentrazione di comunità palestinesi. [3] Secondo alcune stime, la Galilea è a maggioranza palestinese. Il ministero mira quindi a consolidare una presenza ebraica contigua e a minimizzare la presenza araba palestinese; lo dimostra la demolizione di villaggi beduini sulla base del "non-riconoscimento" da parte dello stato israeliano.

Questa appropriazione dello spazio indigeno a favore della popolazione colona attraverso meccanismi quali gli insediamenti, l'annessione giuridica, l'espulsione fisica e la negazione delle rivendicazioni fondiarie si ritrova nei progetti coloniali di insediamento in tutto il mondo. In Palestina, ciò avviene da entrambi i lati della Linea Verde ed è parte integrante di quella che viene definita la Nakba continua, o al Nakba al mustimirrah.

Spazi di resistenza palestinese

Di fronte a questa continua Nakba, le comunità palestinesi sono da tempo impegnate in atti di quella che alcune analisi hanno definito resistenza spaziale, comprendente pratiche che affermano la presenza e la continuità palestinese sulla terra e sfidano la colonizzazione israeliana. Esistono vari esempi di questa resistenza, sia passati che in corso, che incorporano i principi di riappropriazione della terra e fermezza (sumud).


Bab al Shams e Ein Hijleh

Nel gennaio 2013, circa 250 attivisti palestinesi provenienti da tutta la Palestina storica fondarono il "villaggio" palestinese di Bab al Shams, vicino all'insediamento ebraico israeliano illegale di Ma'ale Adumim. Il villaggio fu costruito su un terreno palestinese di proprietà privata, localizzato all'interno del corridoio E1, una striscia di terra che di fatto taglia a metà la Cisgiordania.

Con il permesso del proprietario del terreno, gli attivisti eressero circa 25 tende per creare il "villaggio" e, nonostante avessero ricevuto un'ingiunzione dall'Alta Corte di Giustizia che bloccava lo sgombero del villaggio per sei giorni, l'esercito israeliano rimosse con la forza gli attivisti dopo soli due giorni. Nonostante la sua breve vita, il villaggio costituì una forma di azione diretta che affermava la proprietà palestinese della terra e sfidava la sua continua confisca. Bab al Shams contribuì inoltre ad evidenziare la presenza palestinese nell'area di Gerusalemme.


L'anno successivo, il Comitato di coordinamento della lotta popolare palestinese creò un villaggio di protesta simile a Bab el Shams nel sito di Ein Hijleh, un villaggio palestinese distrutto nella Valle del Giordano. Durante la settimana in cui gli attivisti riuscirono a rimanere nel villaggio, furono installati pannelli solari, fu ripulito il terreno e furono organizzate varie attività politiche e culturali. Dopo sette giorni, l'esercito israeliano smantellò con la forza l'accampamento, arrestando decine di attivisti e ferendone molti altri.


Iqrith e la Marcia del Ritorno

Dal 2012, giovani attivisti hanno mantenuto una presenza fisica continua sulla loro terra nel sito di Iqrith, un villaggio palestinese della Galilea distrutto nel 1948. I discendenti delle famiglie del villaggio sono sfollati interni ("assenti presenti"), il che significa che, pur avendo la cittadinanza israeliana e risiedendo all'interno dei confini di Israele, non possono tornare ai loro villaggi e alle loro terre precedenti al 1948. Iqrith è un caso insolito perché nel 1948 le forze sioniste dissero ai suoi residenti che avrebbero potuto tornare dopo i combattimenti. Sebbene questa promessa non sia stata mantenuta, nel 1951 i residenti di Iqrith hanno ottenuto una decisione dell'Alta Corte che ha permesso loro di tornare. [4]


Tuttavia, la decisione è stata bloccata dal tribunale militare, che sostiene che il ritorno dei residenti sarebbe un rischio per la sicurezza dello Stato. Gli attivisti di terza e quarta generazione di Iqrith mantengono una presenza costante nel villaggio e hanno creato un accampamento in un annesso della chiesa del villaggio. Questa presenza è mantenuta nonostante la sentenza militare e i tentativi delle autorità israeliane di ostacolarli, arrestando gli attivisti, distruggendo le strutture e sradicando le piante. La presenza degli attivisti afferma la loro identità palestinese e sfida l'idea che la terra palestinese sia limitata alla Cisgiordania e alla Striscia di Gaza.


Un'altra iniziativa organizza il ritorno delle comunità palestinesi nei villaggi distrutti. La Marcia del Ritorno si è svolta principalmente in Galilea, dove vive la maggior parte della popolazione palestinese sfollate internamente. [Nel 2016] si è tenuta nel Naqab, e quest'anno

si svolgerà in un villaggio distrutto vicino ad Haifa. Da quando l'Associazione per i diritti delle persone sfollate internamente e altri gruppi hanno organizzato la prima edizione nel 1999, la Marcia del Ritorno è diventata un evento significativo nella Palestina storica, organizzato in coincidenza con il Giorno dell'Indipendenza israeliana al motto di "La vostra indipendenza è la nostra Nakba". Come nel caso dell'attivismo dell'Iqrith, la Marcia del Ritorno è un'inversione simbolica dello sfollamento originario attraverso l'atto fisico di tornare, anche se temporaneamente, nel luogo della distruzione. La marcia sfida anche la narrazione del Giorno dell'Indipendenza sionista di "una terra senza popolo per un popolo senza terra", riaffermando la presenza palestinese prima del 1948.


Al Araqib e Susiya

Al Araqib è un villaggio beduino palestinese situato nel Naqab che esiste da due secoli. Le forze israeliane hanno sfollato per la prima volta i residenti nel 1951 per motivi di "sicurezza" e Israele si è appropriato della terra in base alla legge sull'acquisizione delle terre. Alla fine degli anni '90, 45 famiglie sono tornate sul terreno nel tentativo di impedire al Fondo Nazionale Ebraico di piantarvi sopra una foresta.


Con l'affermazione che il villaggio è "non riconosciuto" e costruito su terra dello Stato israeliano, i tentativi di sfollare le persone di Al Araqib si sono intensificati negli ultimi anni. Dal 2010, le autorità israeliane hanno distrutto il villaggio 120 volte, di solito usando i bulldozer per radere al suolo le strutture e la polizia antisommossa per rimuovere i residenti che cercano di proteggere le loro case con i loro corpi. In quanto villaggio "non riconosciuto", gli vengono negati anche i servizi più elementari. Molti dei residenti si sono trasferiti nelle città vicine, ma alcuni sono rimasti e hanno ricostruito le loro case, spesso utilizzando materiale recuperato dalle macerie. I residenti organizzano spesso raduni e proteste per sottolineare la loro lotta contro lo sfollamento e il furto di terra.


Appena al di là della Linea Verde, una lotta simile si sta svolgendo nel villaggio di Susiya, situato nell'Area C a sud di Hebron. Poco dopo aver fondato un insediamento illegale nel 1983 sulla terra di Susiya, il governo israeliano ha demolito le case di 60 famiglie. I residenti hanno ricostruito le loro abitazioni nelle vicinanze, ma nel 2001 Israele ha demolito l'intero villaggio. Dal 2011 Susiya ha dovuto affrontare una serie di demolizioni di massa da parte delle autorità nel tentativo di stabilire il totale controllo di Israele sull'Area C.

Poiché gli Accordi di Oslo hanno posto l'Area C sotto il controllo militare israeliano, Israele è in grado di negare le richieste di pianificazione e costruzione presentate da palestinesi per motivi di sicurezza. Così, ogni volta che i residenti di Susiya ricostruiscono le loro case, ricevono nuovamente ordini di demolizione. Tuttavia, i residenti di Susiya sono rimasti sulla loro terra, vivendo nelle condizioni più elementari. Hanno anche avviato una campagna che ha attirato il sostegno di attivisti internazionali. Sia Al Araqib che Susiya stanno dimostrando fermezza, ma la loro durata rimane incerta nel contesto dell'accelerazione della colonizzazione e dell'annessione israeliana.

Rafforzare il diritto alla terra delle comunità palestinesi

Come discusso in precedenza, le comunità palestinesi hanno utilizzato molti modi per resistere al furto di terra da parte di Israele. Per fermare ulteriori incursioni sulla terra palestinese e sostenere e sviluppare la resistenza spaziale palestinese, è necessario concentrare gli sforzi in tre aree:


Promuovere la resistenza spaziale dal basso

Con il sostegno popolare, le iniziative che riaffermano la presenza fisica palestinese sulla terra potrebbero essere in grado di sfidare il dominio israeliano dello spazio. Per far ciò, la popolazione palestinese deve affrontare sfide di sostenibilità. Per esempio, le persone palestinesi impegnate in attività sul territorio dovrebbero continuare a collegare le lotte locali e a chiedere un coordinamento oltre la Linea Verde. Questo non solo metterebbe in evidenza il grande progetto di colonizzazione israeliano, ma sfiderebbe anche la definizione di Israele di ciò che è considerato Palestina e di chi è considerato palestinese.


La popolazione palestinese dovrebbe anche chiedere il sostegno e la protezione internazionale e di parti terze per queste attività, come il finanziamento di barriere anti-bulldozer nelle comunità palestinesi più vulnerabili.

Anche gli attori internazionali che hanno investito in infrastrutture nelle comunità palestinesi che Israele ha distrutto dovrebbero chiedere un risarcimento finanziario. I loro investimenti in comunità e progetti devono essere accompagnati da una condizione che renda le demolizioni e gli sfollamenti finanziariamente onerosi per Israele.


Impedire l’ulteriore furto di terra palestinese

Gli Stati terzi sono tenuti, in base al diritto umanitario internazionale, a usare tutte le misure possibili per reprimere le violazioni. La legge è chiara: lo sfollamento di una popolazione occupata e la costruzione di insediamenti da parte dell'occupante sono violazioni. Pertanto, devono essere mobilitati tutti i meccanismi internazionali che possono essere utilizzati per prevenire ulteriori appropriazioni e annessioni. Questi includono, ma non si limitano a:



Costruire casi di restituzione di proprietà e terreni

La restituzione e il risarcimento delle proprietà e delle terre sono una parte essenziale di qualsiasi futuro processo di riconciliazione, come si è visto in Sudafrica dopo lo smantellamento del regime di apartheid. Occorre impegnarsi per contestare retroattivamente i furti di proprietà e di terra compiuti da Israele a partire dal 1948. Le comunità palestinesi dovrebbero organizzare uno sforzo di massa per ricercare e formulare le loro rivendicazioni; esiste già un'ampia documentazione a loro sostegno, tra cui i file dell'UNCCP e i documenti dell'UNRWA, documenti ufficiali dello Stato israeliano e testimonianze orali.

 

Con questi sforzi mirati e organizzati, il popolo palestinesi e i suoi alleati potrebbero ostacolare l'implacabile saccheggio della terra palestinese da parte di Israele e garantire politiche in linea con i diritti sanciti dal diritto internazionale.

Note

[1] Questo numero è approssimativo e si basa su testimonianze orali e vari documenti istituzionali ed è citato da studiosi come Ilan Pappe in The Ethnic Cleansing of Palestine.


[2] Le proteste furono mobilitate sotto la guida del Comitato per la difesa delle terre arabe, che era stato istituito congiuntamente da vari organismi studenteschi, Abnaa el Balad e il Partito Comunista.


[3] Vedi il rapporto di Ben White “Palestinians in Israel's democracy: Giudaizzare la Galilea”; https://www.middleeastmonitor.com/wp-content/uploads/downloads/briefing-paper/palestinians-in-israel-democracy.pdf


[4] Il villaggio di Kufr Birim presenta un caso simile: ai residenti del villaggio è stato vietato di tornare nonostante una decisione contraria dell'Alta Corte.










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