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La popolazione palestinese in Cisgiordania è completamente impreparata al genocidio in arrivo

  • Immagine del redattore: Fathi Nemer
    Fathi Nemer
  • 12 set 2024
  • Tempo di lettura: 5 min

Aggiornamento: 30 mar

Dobbiamo costruire un'infrastruttura di lotta per resistere al prossimo assalto di Israele alla Cisgiordania. Il primo passo per farlo è rafforzare le capacità di autosufficienza e reclamare la sovranità alimentare.



Veicoli blindati israeliani percorrono una strada distrutta durante un raid a Tulkarem il 10 settembre 2024. (Foto: Mohammed Nasser/APA Images)
Veicoli blindati israeliani percorrono una strada distrutta durante un raid a Tulkarem il 10 settembre 2024. (Foto: Mohammed Nasser/APA Images)

Il gioco finale sionista in Cisgiordania è alle porte. Gli ultimi undici mesi lasciano poco spazio ai dubbi: le comunità coloniali continuano a spopolare attivamente le comunità palestinesi, a rapire e torturare giovani uomini e a fondare nuove colonie. Il ministro della Sicurezza nazionale israeliano Itamar Ben-Gvir si vanta apertamente di voler costruire una sinagoga in cima al complesso della Moschea di al-Aqsa.


Tutto questo non deve essere inteso come una nuova fase del colonialismo di insediamento sionista, ma piuttosto come l’intensificazione e smascheramento [di questa stessa struttura]. Ciò che sta accadendo a Gaza può accadere e accadrà altrove in Palestina. Non perché i contesti o le condizioni siano identici, ma perché derivano dalla stessa logica suprematista e dallo stesso sistema di dominazione coloniale.


È un errore credere che un cessate il fuoco, indipendentemente dalla sua forma, ripristinerà la situazione. Non torneremo allo status quo precedente al 7 ottobre per procedere con le nostre vite fino al prossimo bombardamento di Gaza. Se non altro, il 7 ottobre ha mostrato quanto la Cisgiordania sia completamente impreparata a ciò che sta per accadere, in parte a causa dell’ostinata illusione che si è creata durante gli ultimi tre decenni, ovvero l'idea che possa esserci una parvenza di vita normale sotto l'occupazione in cambio dell'obbedienza.


Come spiegare altrimenti la costruzione di fragili torri commerciali in vetro nelle città sotto occupazione? Questa non è l'infrastruttura di una società in lotta o che intende combattere. Nel frattempo, a pochi chilometri di distanza, si erigono insediamenti progettati come fortezze, anche se non sono sotto occupazione militare. La meticolosa progettazione degli insediamenti mira a favorirne la funzione, cioè la colonizzazione della terra palestinese. Questa osservazione ci suscita un quesito: quale funzione svolgono oggi le varie comunità palestinesi in Cisgiordania?


Dominazione e resistenza


Riconoscere una mancanza di preparazione, non significa affermare che la popolazione palestinese in Cisgiordania sia rimasta inattiva. Negli ultimi anni sono sorti diversi gruppi di resistenza, soprattutto nei campi profughi, e centinaia di persone palestinesi sono state martirizzate. Questi gruppi hanno sviluppato le loro capacità e sfidato il colonialismo sionista al punto che il regime israeliano ha ripristinato i bombardamenti aerei in Cisgiordania, cosa a cui non avevo fatto ricorso dai tempi della Seconda Intifada.


Anche se non tutte le persone possono resistere attivamente allo stesso modo, ognuna è responsabile della creazione delle condizioni che permettono la resistenza. In questo senso, la Cisgiordania potrebbe fare ancora di più, soprattutto a livello popolare. Forse uno degli ambiti di lotta più urgenti in cui è possibile una maggiore partecipazione del mainstream è quello economico, in quanto si tratta di un modo primario attraverso il quale Israele mantiene il suo controllo sul popolo palestinese e ostacola ogni tipo di resistenza.


Lo sviluppo dell'economia palestinese e la riduzione della popolazione rurale palestinese a forza lavoro proletarizzata e prigioniera dell'economia coloniale sono stati strumenti fondamentali per la smobilitazione e l'addomesticamento della popolazione palestinese. I mezzi di sussistenza sono tenuti in ostaggio dal regime israeliano, imponendo un prezzo molto alto per la resistenza. Per parafrasare l’intervento di Ismat Quzmar in una conferenza sulle politiche economiche dell'occupazione dal 7 ottobre, le persone palestinesi sono costantemente bloccate tra il loro interesse materiale immediato e il loro interesse nazionalista a lungo termine. Ecco perché la battaglia per indebolire e smantellare questo sistema di dominio è fondamentale per rafforzare il radicamento delle persone palestinesi sul terreno e stabilire un ordine politico ed economico più conflittuale.


In poche parole, se non possiamo nutrirci, non possiamo liberarci. Se non siamo in grado di sostenere autonomamente le infrastrutture della vita, allora queste stesse infrastrutture saranno usate per ingabbiarci.


All'epoca dell'occupazione della Cisgiordania, Moshe Dayan disse che se Israele avesse potuto “staccare la spina” e tagliare le risorse alle città palestinesi, sarebbe stato un meccanismo di controllo più efficace “di mille coprifuoco e di mille divieti di sommossa”.Non si tratta di idee estranee o nuove. L'autosufficienza ha costituito la base di un'economia di resistenza prima e durante la Prima Intifada. Progetti come i “Giardini della Vittoria” hanno visto trasformare appezzamenti di terreno e cortili delle case in orti produttivi per promuovere l'autosufficienza e l'indipendenza. Ciò significava che le città e i villaggi palestinesi potevano resistere a chiusure e assedi per periodi prolungati, assicurando che, indipendentemente dal deterioramento delle condizioni, la popolazione palestinese non sarebbe morta di fame.


Dopo la firma degli Accordi di Oslo, questi sforzi di autosufficienza sarebbero stati gradualmente annullati con il pretesto della “costruzione dello Stato”. Contrariamente alle aspettative, una volta privata della libertà, la classe contadina palestinese, fu incoraggiata a passare alle colture da reddito, come la coltivazione di fiori da esportare nei mercati europei e da integrare nell'economia mondiale.


Insieme alle annessioni di terre e all’impiego nell'economia coloniale, queste trasformazioni hanno lasciato la classe contadina palestinese in condizioni disastrose, con appena il 26% di loro che dichiara l'agricoltura come fonte primaria di reddito. Questa realtà rispecchia un approccio alla sicurezza alimentare che prevede l'approvvigionamento di cibo principalmente attraverso il commercio o gli aiuti, trascurando il modo in cui il cibo viene prodotto e commercializzato, i monopoli sulle sementi e altri rapporti di potere che determinano chi può mangiare. Tale approccio alla sicurezza alimentare basato sul commercio o gli aiuti trascura inoltre il fatto che la popolazione palestinese è ostaggio di un sistema coloniale di insediamento e che può essere tagliata fuori dal mondo esterno a causa di un semplice capriccio di petulanti politici israeliani.


Sovranità alimentare in Palestina


Il concetto di sovranità alimentare è nato per sfidare le carenze del paradigma della sicurezza alimentare. È incentrato sui piccoli agricoltori e cerca di costruire una produzione alimentare locale sostenibile. Si concentra anche sul recupero della terra e delle risorse, sulla creazione di una produzione organizzata a livello comunitario e sulla costruzione delle infrastrutture necessarie a sostenere la resistenza. L'adozione di un simile paradigma contribuirà a creare alternative per sottrarre la manodopera palestinese all'economia coloniale, per sostenere la stabilità della classe contadina nella loro terra e per respingere l'invasione coloniale.


La nostra strategia di resistenza economica dovrebbe essere svincolata da motivazioni di puro profitto e porre maggiore enfasi sul valore strategico del controllo della produzione di risorse critiche, come il grano. Anche se questo è più costoso nel breve periodo, dovrebbe essere visto come un investimento comunitario in un futuro diverso, dove la resistenza non significa automaticamente indigenza. Questa trasformazione va oltre il semplice cambiamento delle abitudini di consumo e dovrà essere accompagnata da un movimento sociale e politico che cerchi di trasformare le comunità palestinesi in centri di resistenza resilienti.


Che cosa c'era in un modesto collettivo lattiero-caseario di 18 mucche a Beit Sahour durante la Prima Intifada che lo rendeva una tale minaccia per l'occupazione da non risparmiare alcuno sforzo per farlo chiudere? Cosa c'è oggi nelle aziende casearie palestinesi, con migliaia di mucche, che non suscita una risposta simile? Questa è la domanda chiave che dobbiamo risolvere.


L'ordine politico degli ultimi 30 anni ha raggiunto la sua fine e rifiutare di riconoscerlo non ci metterà al riparo dalle ripercussioni. L’ordine esistente non è riuscito a proteggerci o a offrire una visione per un futuro libero. È comprensibile che una comunità internazionale complice continui a venderci l'illusione di un'occupazione temporanea e di due Stati, ma è una faccenda del tutto diversa quando ad ingannarci siamo noi stessi. Dovremmo agire di conseguenza e sostenere, con tutti i mezzi disponibili, un ritorno diffuso alla terra come dinamo per ristabilire l'economia di resistenza del passato e svilupparla per affrontare le sfide del presente.


Il popolo palestinese deve lavorare per sostenere l'infrastruttura della resistenza. Dobbiamo nutrirci a vicenda come collettività o morire di fame nelle nostre singole famiglie.


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